Nella vita di un allenatore delle giovanili ci sono due strade possibili:
- la prima è indicata dal verbo «Vincere!»
- la seconda dal verbo «Insegnare!».
Più facile, molto più facile (anche se può sembrare paradossale) imboccare la prima.
Infatti gli allenatori delle giovanili si dividono spontaneamente in due categorie:
la prima raccoglie i numerosi seguaci del vincere ad ogni costo, la seconda, molto più sparuta, quelli dell’insegnare.
Chi appartiene alla prima categoria ha vita facile.
Invece di costruire mattone dopo mattone una buona pallavolo, cosa faticosa per chi impara, ma soprattutto per chi insegna, si trova davanti una marea di semplicissime scorciatoie che vanno dal prendere i due o tre ragazzi più grossi e metterli a schiacciare in solitaria (dicendo ai compagni di servirli che poi ci pensano loro) fino allo spiegare che il più bravo è sostanzialmente chi picchia più forte. Scorciatoie come insistere sui punti di forza dei bambini o dei ragazzi evitando accuratamente di lavorare per correggere gli errori, colmare le lacune, aggiungere ogni settimana un pezzo in più alla costruzione del giocatore (persona) del futuro.
Chi appartiene a questa categoria ha vita facile: perché, praticando qualcosa che assomiglia alla pallavolo senza mai esserlo davvero, vince.
Non sempre ovviamente, ma spesso.
E i bambini se vincono sono felici. E se sono felici i bambini sono felici anche i genitori, che non rompono le scatole all’allenatore perché il loro “Ivan Zaytsev” (incompreso dal mondo intero) ha giocato poco, viene utilizzato in modo sbagliato, viene scarsamente lodato in proporzione a quanto dispensa ogni volta che scende in campo.
Chi appartiene alla seconda categoria invece fa una scelta difficile, al limite della follia e dell’autolesionismo.
Perde spesso e volentieri, a meno che alleni una delle poche squadre di altissimo livello che, facendo davvero selezione, scelgono i talenti fin dalla più tenera età per poi crescerli come il Messia del Volley comanda.
Siccome di solito questa fortuna capita a pochi, in genere per gli adepti dell’insegnamento sono dolori: incontrano squadre di energumeni picchiatori che li battono con una certa regolarità, infarcite di giocatori che magari fanno una cosa bene, ma sempre una e sempre solo e dannatamente quella, e loro sembrano imbecilli perché non riescono a fermarli e, alla fine, il tabellone del punteggio è quello che conta.
Vanno in palestra e durante l’allenamento, invece di sedersi comodamente a dare indicazioni da bordo campo, si muovono come ossessi sul terreno di gioco per spiegare, imitare i movimenti, farli ripetere fino alla noia. Lavorano sui particolari. Dimenticano i punti di forza, o almeno li accantonano come un tesoretto intoccabile, per insistere sulle debolezze, per eliminarle, per trasformarle in mosse vincenti.
Così facendo non soddisfano i bambini, non soddisfano i genitori e si espongono alla critiche anche tecniche di chi, pur faticando a spiegare cosa sia un’infrazione di “ doppia “, al grido di «sai, io ho visto molte partite!» reclama il diritto di spiegare per filo e per segno cosa si dovrebbe fare per portare a casa il risultato.
PREGO, ACCOMODARSI NEL PRIMO GRUPPO. QUI NON C’È POSTO.
(Marco Paolini)
Gli allenatori della seconda categoria sono quelli:
Che rinunciando a vittorie facili ma costruiscono comunque i giocatori.
Che li mettono in condizione di rendere al meglio delle proprie possibilità, indipendentemente dal livello che sapranno raggiungere.
Che li portano, alla fatidica età dei diciotto o diciannove anni, a finire le giovanili e ad entrare nei campionati senior come protagonisti completi dello sport che amano.
Gli allenatori della seconda categoria non lavorano per sé stessi, ma per il futuro: perché l’amore per quella maledetta palla suddivisa in tanti spicchi colorati possa durare il più a lungo possibile. Perché chiunque abbia giocato, o allenato, provando amore vero per il proprio sport sa che, una volta smesso, il profumo della palestra o il rumore del pallone che rimbalza sul parquet, non ti abbandoneranno mai.
Un vecchio detto cinese recita: «Se un uomo ha fame e gli regali un pesce l’hai sfamato per un giorno. Se gli insegni a pescare l’hai sfamato per la vita».
A tutti noi allenatori o/e genitori, la libera scelta di decidere cosa vogliamo per i nostri figli.