Lo stress
Secondo Selye, “lo stress è una risposta non specifica dell’organismo ad ogni agente ambientale perturbante”. Il nostro corpo si difende dai fatti e dagli agenti vissuti come stressanti, attraverso la sindrome di adattamento che ha la funzione di proteggere il corpo dalle situazioni vissute come pericolose, implica un lavoro di tipo nervoso ed endocrino, che prepara l’organismo ad una reazione di attacco o di difesa.
La sindrome di adattamento si attua in tre fasi:
1- allarme (con forte stimolo surrenale e produzione di corticoidi);
2- resistenza (l’organismo si organizza per resistere);
3- esaurimento.
E’ importante la qualità dell’agente stressante, ma è altrettanto importante come la persona lo vive.
Lo stesso agente stressante può provocare reazioni diverse a seconda della persona che lo subisce: lo stato d’animo, la fiducia in se stessi, il grado di salute ed efficienza dell’organismo, possono condizionare e mediare l’effetto stressante sull’individuo (giocatore e allenatore).
A livello infantile è importante comprendere come lo sport per il bambino troppo spesso assuma significati che vanno al di là di ciò che è veramente l’attività sportiva.
Una eccessiva insicurezza in se stesso, condiziona fortemente il bambino davanti alla gara. Il bambino non pensa che potrebbe vincere, ma è terrorizzato soprattutto dall’idea della sconfitta e di conseguenza tende a giocare soprattutto per non perdere, perché tendenzialmente pensa sempre che l’avversario sia superiore a lui. La paura di non riuscire e la mancanza di fiducia delle proprie possibilità, rappresentano un fattore di stress molto importante. Molto spesso anche i genitori del bambino che pratica lo sport, possono avere delle responsabilità sul come il figlio vive la realtà sportiva, in quanto trasferiscono su di lui, le proprie motivazioni allo sport.
Il bambino non ha la capacità di capire che il genitore sbaglia comportandosi così. Il bambino vede solo la differenza di comportamento nei suoi confronti da parte del genitore, a seconda che lui vinca o perda la competizione. Quando il bambino vince, riceve gratificazioni e sorrisi, quando perde il genitore non riesce a nascondere la sua delusione e invece di rincuorarlo, standogli vicino, gli manifesta tutto il suo disappunto. In questo modo il bambino si sente più amato quando vince (e per lui vincere significa conquistare l’amore del genitore) e “odiato” quando perde. Tutto ciò crea una situazione di grave tensione, prima e durante la gara e le problematiche di ansia in situazioni di questo tipo sono molto frequenti. Anche con il rapporto con l’istruttore, con l’allenatore e con i dirigenti della Società Sportiva, possono crearsi distorsioni molto simili a quelle sopra descritte.
Quando la Società Sportiva e i dirigenti considerano il bambino un mezzo per conquistare dei trofei o delle vittorie, quando il tecnico considera il bambino solo uno strumento per dimostrare il suo valore, allora nascono i guai e il bambino non è in grado di vivere serenamente la sua esperienza sportiva.
Soprattutto nella fascia di età che va dai 6 agli 11-12 anni, queste problematiche sono molto importanti, perché è in questo periodo che il bambino ricerca, nella sua esperienza sportiva, soprattutto la gratificazione di quella che viene definita la motivazione ludica: il gioco.
A quest’età bisogna giocare allo sport, non praticare lo sport! [/nextpage] [nextpage] Dagli 11-12 anni in avanti, un fattore di stress può essere legato al forte bisogno che l’adolescente ha di conquistare la stima del gruppo. In questo periodo diventa importante essere bravi e vincenti, soprattutto nel rapporto con i coetanei; un rapporto questo che, in questo periodo, è sempre molto competitivo. Per il ragazzo la gara non significa solo vincere o perdere per se stesso e fare bella figura diviene drammaticamente importante per definire il proprio ruolo all’interno del gruppo (leader, gregario). Spesso in questo periodo, a causa delle modificazioni strutturali, fisiche, neurovegetative, si possono registrare cadute di rendimento legate alla perdita degli aspetti motori coordinativi già conseguiti.
E’ questo il periodo definito “della ristrutturazione delle capacità motorie”. Non bisogna anticipare i tempi di sviluppo delle capacità e abilità motorie, non bisogna pretendere prima del tempo i risultati, bisogna rispettare i tempi e i ritmi di apprendimento, quindi l’istruttore deve avere pazienza, deve saper aspettare. Allenamenti troppo frequenti, monotoni, ripetitivi, faticosi, la mancanza di tempo libero per uscire con gli amici per svagarsi, le partite, i rimproveri, provocano nei giovani giocatori stati ansiogeni: tutto ciò può creare difficoltà che spesso sfociano nell’abbandono dell’attività sportiva (drop out). Un fattore di stress molto importante e troppo spesso trascurato, è quello legato ai sensi di colpa nei confronti dello sport. Capita spesso che vi siano giocatori che hanno avuto dai genitori una educazione nella quale lo sport è considerato una perdita di tempo; vi sono atleti che per poter praticare lo sport hanno dovuto lottare anche contro la famiglia. Quando i genitori non conoscono i vantaggi che arreca lo sport in prima persona, spesso inculcano nel giovane un senso di colpa nei confronti dello sport. Essi credono che il tempo dedicato allo sport sia tempo buttato, da spendere invece in attività più costruttive come lo studio e il lavoro. Queste convinzioni diventano dubbi che si strutturano nella mente del giovane, al punto che ogni volta che fa sport, è come se facesse delle cose negative. Spesso problematiche di questo tipo sono inconsce e si manifestano attraverso disturbi psicosomatici e tra questi vi è sicuramente la tendenza all’infortunio di tipo psicosomatico. [/nextpage][nextpage] La gara, l’esame e molte altre situazioni nella vita, dalle quali noi istruttori ed allenatori, ricaviamo una immagine delle nostre capacità, ci creano tensione. Questo tipo di tensione è utile ed adeguato quando consente all’individuo di concentrare tutte le energie sull’obiettivo da raggiungere. In questo caso, il soggetto è in grado di mettere al servizio del suo desiderio, tutte le sue competenze tecniche, atletiche e mentali. Questo è il tipico caso di quegli allenatori ed atleti che riescono a rendere e dare il massimo di se stessi, proprio in occasione delle situazioni che contano, quelle più importanti.
Sia a livello giovanile che a livello senior, vi sono moltissimi atleti ed allenatori che, davanti ad una situazione importante (gara), non riescono a tradurre in comportamenti positivi le proprie potenzialità. E’ il caso tipico di giocatori che, pur possedendo mezzi atletici e tecnici idonei ad affrontare la gara, vivono una situazione di disagio talmente forte, da non riuscire a dare tutto ciò che hanno dentro di sé. Lo stesso dicasi per molti istruttori ed allenatori che vivono intensamente il pre-gara e la gara stessa.
Non sono sereni, hanno paura della competizione (vittoria, sconfitta o incertezza) e scaricano sugli atleti la loro tensione nello spogliatoio e durante la gara (insulti, imprecazioni).
La capacità di comunicazione dell’istruttore e dell’allenatore, incide molto sullo stato ansioso dei giocatori: bisogna essere calmi, parlare tranquillamente, non enfatizzare troppo la gara, senza però tralasciare l’importanza dell’evento. Da come si esprime l’allenatore nello spogliatoio, i giocatori ne ricavano le spinte per prepararsi alla gara; lo stesso dicasi durante la partita (es. nei time-out del volley e del basket). Aver lavorato bene in questo periodo, significa creare i fondamenti affinchè il giocatore abbia un buon rapporto con il proprio corpo e con le proprie pulsioni. Saper discriminare le varie differenze di tonicità nel corpo, permette alla persona (giocatore e allenatore), di avere un parametro in più per riconoscere il proprio stato d’animo ed anche quello degli altri.
Contrazione e decontrazione sono l’effetto sul corpo di stati d’animo diversi e l’imparare a riconoscerli su se stessi e sul corpo degli altri, è possibile solo si è lavorato su queste tematiche e sulla gestione delle pulsioni nel periodo 6-11 anni (multilateralità, educazione motoria di base) e dai 12 ai 15-16 anni (avviamento sportivo, sviluppo delle capacità motoria, perfezionamento dei fondamentali individuali e collettivi di attacco e di difesa).
L’aggressività se non è educata ad essere scaricata con modalità adeguate, può diventare un pericoloso nemico in futuro.
Troppo spesso, ad una educazione troppo repressiva che tende a reprimere sul nascere qualsiasi forma di aggressività, corre in aiuto solo l’attività sportiva che offre al giovane la possibilità di evitare il pericoloso meccanismo che porta a dirigere l’eccesso di energia pulsionale contro se stessi, realtà che a lungo andare produce le malattie psicosomatiche.
Educare l’ansia e incanalare lo stress attraverso lo sport sono gli obiettivi principali di un allenatore.
La gara deve essere vissuta positivamente, l’agonismo deve essere inteso come confronto e non come scontro e il cercare ogni volta di migliorarsi, mettono in condizione l’allenatore (capace, competente, preparato e profondo conoscitore delle tematiche relative allo sviluppo dell’individuo) di operare bene. Un aspetto forse un poco trascurato è invece quello della personalità degli istruttori e degli allenatori. L’esperienza ci insegna che le caratteristiche di personalità sono di primaria importanza nella valutazione su chi è preposto all’allenamento dei giocatori. [/nextpage][nextpage]
Un allenatore positivo è colui che:
ha fiducia in se stesso possiede una mentalità elastica è intelligente e disponibile verso gli altri è un leader possiede un buon livello culturale conosce bene se stesso sa comunicare bene è “curioso ” verso il nuovo non trasmette ansia e stress – sa gestire bene i rapporti interpersonali
Un bravo allenatore, per poter comunicare con la squadra e con i singoli giocatori, deve essere una persona sicura delle proprie possibilità, convinta delle proprie idee e capace di metterle in discussione, senza mai farsi prendere dal panico e dall’ansia.
L’autocoscienza (capacità di conoscere chi è realmente, che cosa vuole ottenere) e l’autostima (avere fiducia nelle proprie possibilità, sapere quali sono i propri limiti, possedere equilibrio, indicare agli altri la strada giusta da percorrere per poter ottenere dei risultati), sono due elementi di personalità che determinano la possibilità o meno di essere un buon allenatore.
Se non c’è autostima ci saranno mille paure, troppi dubbi, che prima o poi genereranno ansia, stress e difficoltà nella gestione della squadra.
Per evitare stati ansiosi nei giocatori l’allenatore può:
proporre esercizi diversi con molte varianti (situazioni reali di gioco), in modo che l’allenamento non sia noioso e ripetitivo;
attivare la componente emotiva con un agonismo equilibrato, con piacevole ansietà, incitare i giocatori, creare un “buon spogliatoio”;
rivolgere lo sforzo del giocatore verso obiettivi che può raggiungere (ognuno può raggiungere i “suoi” obiettivi e non quelli degli altri);
proporre esercizi che soddisfino i bisogni e le motivazioni dei giocatori;
analizzare tutti gli aspetti della formazione dei giocatori, trattandoli da “persone” e non da robot.
[/nextpage][nextpage]CONCLUSIONI
La sicurezza nei propri mezzi è quella virtù che permette l’elasticità mentale, che è da ritenersi un attributo fondamentale per la personalità dell’allenatore. Più un allenatore sarà insicuro e più si arroccherà su una filosofia sportiva rigida, diventando incapace di modellarla in funzione del materiale umano a disposizione. Se un allenatore sarà sicuro di se stesso, conquisterà la fiducia dei suoi atleti e quindi, il gruppo accetterà di farsi guidare senza paure, ansie o stress. Troppo spesso molti allenatori, guidando una squadra, tendono a porsi nei confronti degli atleti con un atteggiamento autoritario (rifiuto della squadra a seguirlo), invece sarebbe molto meglio adottare lo stile della “leaderschip” e che l’allenatore debba possedere la capacità di cogliere il mondo interiore delle persone nei suoi significati più intimi e personali come se fossero i propri, senza dimenticare che in realtà non lo sono (empatia). Questa qualità può essere accostata alla sensibilità, cioè alla capacità di percepire cosa una persona prova e come si sente di fronte ad una situazione. L’allenatore empatico riuscirà a comprendere la sofferenza di chi sta in panchina, la paura del giocatore ansioso e in questo modo il suo rapporto con i giocatori diventerà più intenso e positivo. L’allenatore empatico è quello che sa mettersi nei panni dell’altro, nei panni del bambino che fa fatica ad apprendere o che soffre perché teme di deludere i genitori, del giocatore che sta in panchina troppo spesso e gioca poco o non gioca mai e desidererebbe avere anche lui un momento di gloria, senza paure, ansie e stress.
Ad majora!
Prof. Maurizio Mondoni
CONSIGLI AGLI ALLENATORI
Molto spesso siete abituati a motivare la squadra con il tradizionale discorso pre-partita, incapaci di cogliere gli stati emotivi dei vostri giocatori, non considerando se sono ansiosi o meno e direte, magari, che la partita è una delle più importanti del campionato, che l’avversario è molto forte e che il risultato dipende dal massimo rendimento di tutta la squadra.
Tutto ciò influisce negativamente sui giocatori già ansiosi, che in campo potrebbero non riuscire a mettere in pratica ciò che hanno appreso durante gli allenamenti.
Gli allenatori dotati di capacità e di sensibilità nel capire gli stati d’animo dei loro giocatori, conoscono i fattori che incrementano e che diminuiscono l’insicurezza e l’importanza del risultato e cercano il modo migliore per cercare di diminuire queste cause d’ansia, quando i giocatori sono eccessivamente stressati.
Potreste scoprire tutto questo, mettendovi al posto dei giocatori stessi e ciò servirà per ritrovare lo stato emotivo ottimale che permetterà loro una partecipazione serena e piacevole alla gara.
( Prof. Maurizio Mondoni, Università Cattolica Milano )[/nextpage]